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Proprio in questi giorni il treenne sta cercando di imparare a pedalare. Sembra facile… ma siamo ancora in alto mare. D’indole è ottimista, quindi, senza accanirsi troppo ma con il riprovarci inesorabilmente, ogni giorno la tira fuori dal garage. La guarda, ride. E poi monta in sella. La parte più divertente, per ora. In lui c’è tutta la voglia di lanciarsi nella pedalata della sua vita, di aggredire la strada, di spaventare i pedoni, di far paura a cani e gatti. Ma quando, si domanda. Tenta di pedalare, si alza sulla bici, si piega, si accartoccia e siamo sempre fermi al solito punto. A me fa simpatia e aspetto che sia lui, quel giorno, a decidere di andare da solo. Di avviarsi da solo e scegliere quale strada prendere. Senza nessuna imposizione. Perché in fondo noi genitori li vorremmo nel seggiolino fino a diciotto anni, ma la realtà è che già l’autonomia del loro andare in bici ci dice che sono cresciuti. A me soprattutto… quando per me autonomia vuol dire creare responsabilità. Un libro interessante di qualche ano fa, Parenting Without Borders, di Christine Gross-Loh, ha raccontato come si comportano i genitori nelle varie parti del mondo. Per esempio in Giappone e in Norvegia, l’obiettivo principale è costruire l’indipendenza dei bambini; in Svezia si coltiva molto il “diritto” dei figli (che poi li rende i dittatori di casa); nella cultura ebraica i genitori devono insegnare ai bambini a nuotare, «è come se dovessimo insegnare ai nostri figli a lasciarci». Che poi alla fine è un po’ quello che succede in bicicletta: lasciarli andare. Americani e asiatici sono molto concentrati sul “successo”, ma in modi diversi: i primi coltivano l’autostima dei figli, i secondi investono sulla disciplina. E noi cosa coltiviamo? Per ora io mi sento molto norvegese e in questo mi aiuto con la bici.

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