Se nel farlo sento sempre quel misto di entusiasmo e attesa, disfare l’albero all’improvviso diventa la cosa più noiosa da inserire tra le cose più barbose della terra. Quando ormai quell’abete silenzioso è diventato un pezzo di arredo che quasi s’intona a tutto il resto, è tempo di archiviarlo. Cantine, garage, sgabuzzini, tuguri, soffitte, mansarde riapritevi, gli alberi di natale son tornati. Io ho fissato l’appuntamento dello smontaggio al sette gennaio: se l’otto dicembre per tradizione bisogna aprire le danze del Natale, il giorno dopo la Befana si sbaracca. Nemmeno un giorno in più. È così. E allora via a togliere le palle e festoni: fin qui tutto bene. Vogliamo parlare dell’impossibile impresa di togliere le lucine? Un delirio tra chi tira da una parte, chi dall’altra. Tra chi suggerisce di impacchettare l’albero così com’è (marito in primis) e chi come me si impunta con fare determinato a non mollare, a riarrotolare il fascio di luci. Se poi l’albero è finto ecco la procedura più dura e sanguinosa di gennaio: piegare i rami duri e pungenti ad uno ad uno, fino a formare un ombrello chiuso. Mani a pezzi e albero che dopo dodici anni ha perso buona parte della sua chioma. Così, tra scatoloni polverosi e bimbi ingolfati di regali e dolcetti, se ne va un altro Natale.

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